L'idea che tutto il mondo è un palcoscenico è vecchia come il teatro. Platone parlava del grande palcoscenico della vita, dove gli esseri umani consumano le loro commedie e tragedie. Nel Rinascimento questa metafora diventò assai familiare, e al tempo di Shakespeare era ormai luogo comune. Nonostante questa lunga e ricca storia, il concetto di «ruolo» - il termine deriva dal latino rotulus, dov'era scritta la parte dell'attore - prende forma nel suo significato contemporaneo durante la prima metà del secolo scorso, quando gli scienziati sociali iniziarono a farne uso per descrivere routine o modi di comportamento adeguati ed espressivi di determinate posizioni sociali. Almeno tre sono gli studiosi che possono essere considerati precursori in questo campo d'indagine. Il sociologo e antropologo francese M. Mauss (1938) tracciò un'analogia fra il teatro e il rito. Egli riteneva che nelle società moderne e industrializzate il Sé sociale potesse esprimersi compiutamente solo mediante un complesso set di ruoli e situazioni, però tra loro sovente scollegati. Il rituale proprio di determinate situazioni sociali conferiva al singolo l'opportunità di rappresentare e concretizzare una parte di se stesso (ossia, un ruolo). Sulla scia di Mauss, V. Turner (1957) interpretò le modalità mediante le quali le società tribali affrontano e disciplinano i conflitti alla stregua di un dramma sociale. Infine, K. Burke (1945) elaborò uno schema, chiamato dramatism (drammatismo), per l'interpretazione dell'azione umana e degli scambi sociali. Tale schema era costituito da cinque termini fondamentali: atto, scena, agente, mezzo e scopo. Per comprendere pienamente le ragioni di un'azione servono allora delle risposte a questi cinque interrogativi: che cosa è stato fatto (atto), quando o dove è stato fatto (scena), chi lo ha fatto (agente), come (mezzo) e perché (scopo). L'opera di Burke avrà una grande influenza sul pensiero di E. Goffman, l'autore che più di ogni altro ha usato la metafora del teatro come strumento di analisi delle relazioni sociali.
Prima di illustrare le teorie del ruolo, è opportuno affrontare preliminarmente il concetto contiguo di «status». Possiamo distinguere almeno due significati del termine. Il primo, reso popolare dal sociologo tedesco M. Weber, è relativo alle differenze gerarchiche a livello sociale. In questa accezione, lo status appare essenzialmente come un certo rango, occupato da un individuo o da un gruppo, in una scala di prestigio e di potere. Si parla allora di status basso o alto, inferiore o superiore. Le gerarchie di status sono un fattore da cui prendono origine da un lato la distanza sociale, che comporta l'istituzione di classi in base alla somiglianza o alla differenza, e dall'altro il confronto sociale cui si collega il conflitto tra classi, nonché la mobilità degli individui fra le stesse. Il secondo significato di status si riferisce, più in generale, a qualsiasi posizione strutturale nei sistemi sociali. Un'accezione introdotta negli anni '30 del '900 nell'ambito dell'antropologia culturale e ben presto adottata dalla sociologia struttural-funzionalista. Un sistema sociale è considerato un insieme di rapporti visti non alla stregua di interazioni tra individui, bensì come interazioni di agenti specificate in base alle rispettive posizioni. All'interno di un'istituzione sociale, lo status indica l'insieme degli attributi legati alla posizione occupata dall'individuo in tale sistema. Ad esempio, uno status professionale comporta una certa posizione gerarchica, un dato prestigio sociale, determinati compiti e un insieme di rapporti stabili e prevedibili con gli altri attori (relazioni di autorità, dipendenza, ecc.). La conoscenza relativa alle diverse posizioni sociali fornisce alle persone una mappa concettuale per organizzare la loro condotta. E lo status è definito dalle istituzioni indipendentemente dalle personalità dei singoli attori. Si possono inoltre distinguere status ascritti e status acquisiti. I primi sono presenti alla nascita di un soggetto (ad esempio il genere) e comunque assunti nel ciclo di vita involontariamente. I secondi invece si riferiscono a quelle posizioni sociali assunte in modo volontario e che riflettono, almeno parzialmente, lo sforzo e le capacità di un individuo (ad esempio studiare per diventare professore universitario).
L'antropologo R. Linton (1936) lega strettamente la nozione di status a quella di ruolo, considerando quest'ultimo l'aspetto dinamico dello status. In altri termini, gli individui occupano uno status ed eseguono un ruolo. Va da sé che il termine «ruolo», preso in prestito dal teatro, non offre molto in più, nel suo senso psicologico, di quanto non fosse già presente nel significato originario. Fin dall'antichità, il teatro è il luogo che permette di rappresentare le vicende umane, delineando i profili dei protagonisti ed esplorando le conseguenze delle loro azioni. Nella messinscena di un dramma i ruoli esistono a prescindere da qualsiasi attore, sono dotati di una realtà che trascende il singolo esecutore. Ciò determina l'intercambiabilità degli individui. Questo perché i ruoli sono copioni, sceneggiature da recitare che prescrivono una certa condotta. All'interno di uno schema di riferimento, disciplinano li-interazioni tra persone, indicano il conte nuto delle attività, offrono le regole per strutturare incontri e scontri. Inoltre, l'esperienza come rappresentazione mostra il carattere convenzionale delle cornici che apro no e chiudono gli scambi relazionali e la costruzione sociale del loro significato. La forza psicologica dei ruoli deriva dagli ordina menti collettivi su cui si fonda la vita di una comunità. Ogni cultura scrive la propria concezione del mondo nei ruoli che istituisce. Per tale motivo sono in grado di incidere in profondità l'interiorità delle singole persone. Il ruolo può quindi essere considerato quell'insieme di attività che ci si aspetta che una persona compia, qualora agisca esclusivamente soddisfacendo le richieste normative che abbracciano un soggetto posto nella sua posizione. Pertanto, noi non conosciamo semplicemente le posizioni sociali che occupiamo nella nostra società, ma esperiamo altresì una pressione sociale a conformarci alle aspettative associate a tali posizioni. Una pressione che avvertiamo attraverso le cosiddette «aspettative di ruolo». Non deve inoltre mancare il criterio della reciprocità. Le attese legate a un ruolo riguardano si il soggetto agente, ma anche le reazioni altrui. Un professore universitario, durante le sue lezioni, si aspetta che gli studenti ascoltino e siano attenti a quanto va dicendo. Pertanto, il ruolo non è mai una proprietà privata, bensì sempre collettiva, richiedendo ogni volta la presenza di almeno due persone. Si parla di ruoli complementari per indicare che le funzioni ascritte a un determinato ruolo devono essere fissate considerando almeno un altro ruolo, e viceversa. Per esempio, il ruolo di padre non può essere illustrato senza fare riferimento a quello di figlio, così per quanto riguarda i ruoli di marito e moglie, ecc. Dal ruolo come sistema di aspettative comportamentali si distingue l'«esecuzione di ruolo», ossia la condotta effettivamente esibita da un soggetto quando occupa una particolare posizione sociale. La soggettiva esecuzione di ruolo si svolge, almeno in gran parte, di fronte e congiuntamente con «altri di ruolo», generando un complesso set di ruoli. Nell'analisi di ruolo, allora, ciò che si studia non è la persona, bensi la persona che mette in atto quanto richiesto. Meglio, la sfera di prestazioni interdipendenti attribuibili a tutti i protagonisti sulla scena. Avendo evidenziato che i ruoli svolgono una duplice funzione, di regolamentazione dei rapporti sociali e nel contempo di integrazione della personalità, questi equilibri possono venire compromessi da conflitti di ruolo. Possiamo identificare almeno quattro tipi di conflitto. 1) Il conflitto tra ruolo e personalità. Ad esempio un adolescente, por-lato per le discipline psicologiche e costretto dai genitori a iscriversi a giurisprudenza, può vivere seri problemi per l'antinomia tra le sue inclinazioni e il programma di studi che deve seguire. 2) Il conflitto tra ruoli impersonati dalla medesima persona. Sulla scia dell'esempio precedente, durante il fine settimana i genitori si aspettano che il proprio figlio torni a casa mentre il professore si aspetta che lo stesso, in qualità di studente, passi il suo tempo in biblioteca per terminare l'elaborato assegnatogli. Perché si generi un problema è necessario che i due ruoli implichino raccomandazioni o regole opposte nella stessa area comportamentale. 3) Il conflitto all'interno del ruolo risultante da disaccordo esistente tra coloro che interpretano un ruolo complementare. Restando ancora nei perimetri di una facoltà, rispetto alla tesi di laurea, i professori possono manifestare aspettative diverse sull'elaborato. Un dissenso che disorienta gli aspiranti dottori rispetto all'ultima prova della loro carriera universitaria. 4) Il conflitto interno al ruolo provocato dalla mancanza di accordo tra i ruoli complementari. Ad esempio, rispetto a un figlio che frequenta la scuola pubblica i genitori possono dissentire dagli insegnanti sul comportamento che il primo deve assumere in classe. I conflitti di ruolo tendono a perturbare gli equilibri sociali e personali. Dai vari tentativi di risoluzione possono derivare processi di disintegrazione ma anche di riorganizzazione, a livello collettivo così come sul piano individuale.
Seppure non legato strettamente ai conflitti di ruolo, va comunque ricordato il contributo di J. Moreno (1953). Rispettando la logica secondo cui l'essere umano può affrancarsi dai limiti imposti dalla storia personale, lo psichiatra rumeno introdusse nello studio del gruppo il concetto di «gioco di ruolo», per individuare il territorio in cui il singolo matura la capacità di guadagnare autoconsapevolezza, scoprendo l'ampia gamma di possibili espressioni del proprio Sé. Una spontaneità liberata dalle catene dei ruoli sociali attraverso apposite tecniche di conduzione di gruppo socio e psicodrammatiche. Quando si parla di ruoli entrano quindi in gioco determinazioni culturali e processi di socializzazione. E’ così che, forti del consenso collettivo, le norme associate alle diverse posizioni sociali vengono apprese durante il ciclo di vita. Pertanto, le aspettative di ruolo sarebbero interiorizzate nelle singole menti, diventando conseguentemente elementi di impegno morale. Appare evidente come l'approccio teorico strutturale, derivato dalla sociologia e dall'antropologia, veda la società come un sistema capace di autoregolamentazione nel quale gli attori hanno margini ristretti di scelta e azione, come interpreti convocati su un palco a recitare rigidamente un copione scritto da altri. Agli individui non si chiede altro, e non resta altro, che conformismo. Ma questa visione, dominante dagli anni '40 agli anni '60 del secolo scorso, venne successivamente sfidata da una teoria dei ruoli ancorata all'interazionismo simbolico, una corrente di pensiero derivata dal pragmatismo di G. Mead (1934). Nella Chicago di inizio '900, egli usò il concetto di intersoggettività come medium teorico che mette in continuità individuo e società. I pensieri e le azioni di un soggetto si sviluppano all'interno di una rete sociale fatta di linguaggio, costumi, convenzioni e credenze. In tal senso non esistono persone al di fuori delle relazioni sociali. La consapevolezza di sé si sviluppa durante il processo di socializzazione, attraverso le interazioni quotidiane. Le persone imparano a rispondere l'un l'altra perché apprendono che vari tipi di individui si comportano secondo modalità specifiche. Tali ruoli vengono acquisiti secondo stadi differenti. Inizialmente il bambino imita senza comprendere il senso delle proprie azioni, successivamente, durante lo stadio del gioco libero (play), comincia a imitare consapevolmente il comportamento di altri significativi. Ciò che contraddistingue questo stadio è la limitata capacità di adottare un solo ruolo alla volta. In un momento ulteriore, i bambini entrano in quello che Mead definisce lo stadio del gioco organizzato (game), imparando che i ruoli sono connessi e differenziati. Mentre lo stadio del gioco organizzato rappresenta un notevole avanzamento nello sviluppo, la socializzazione non può dirsi completata fino a quando i particolari ruoli non siano fusi in un «altro generalizzato». Il bambino ha interiorizzato specifici ruoli e atteggiamenti assunti da persone per lui rilevanti, ma deve anche apprendere che certi valori sono ampiamente condivisi dai membri del suo gruppo. L'altro generalizzato rappresenta l'assunzione delle norme più generali all'interno della società, utilizzate per valutare il proprio comportamento e quello altrui; in tal senso esso costituisce l'unità e la continuità del comportamento individuale. Acquisito il linguaggio e interiorizzato l'altro generalizzato, il soggetto è socializzato e capace di rispondere di se stesso come membro della società. La socializzazione non deve però essere intesa come un processo passivo e limitato all'infanzia; in tutte le fasi della vita, l'essere umano sceglie i propri modelli, arricchendosi in ogni nuova circostanza che si trova a dover affrontare. Per quanto sia un prodotto sociale, l'uomo è anche libero di modificare il proprio comportamento e di cambiare il mondo. Infatti, se la società precede e modella l'individuo, essa stessa cambia continuamente grazie all'iniziativa individuale. Risulta allora evidente come nel pensiero di Mead il concetto di «assumere il ruolo dell'altro» venga inteso come l'adozione mentale, da parte dell'attore, del ruolo del suo interlocutore. Una dinamica reciproca di rispecchiamenti che accompagna lo scambio relazionale, consentendo agli esseri umani di esercitare un controllo sistema fico per meglio adattarsi al fluire dell'interazione. Il termine ruolo in questa accezione non si riferisce quindi allo status e a particolari posizioni sociali, pur comprendendole: piuttosto, l'accento cade sulla parte giocata da un attore in una data situazione. Sulla scorta della concezione meadiana di socializzazione, l'enfasi sul conformismo della sociologia struttural-funzionalista venne criticata perché forniva solo una visione parziale del comportamento di ruolo. Così si finiva per sottolineare l'imitazione e ignorare l'innovazione. E veniva meno la comprensione del fatto che chi assumeva dei ruoli era anche un costruttore di ruoli. Quindi, dopo gli anni '60, in sintonia con le trasformazioni sociopolitiche della società del tempo, l'attenzione passa dalle strutture sociali ai processi sociali, dalla stabilità sociale al cambiamento sociale, dal consenso al conflitto, dal conformismo alla creatività. Si afferma così una diversa e più adeguata visione della socializzazione. La conoscenza di ruolo che gli individui apprendono attraverso la propria cultura e società non fornisce loro informazioni per programmare rigidamente il comportamento in un unico modo nelle varie circostanze in cui è probabile essi si vengano a trovare. Gli attori interpretano e reinterpretano le reciproche azioni che punteggiano i loro incontri. Partendo dalla materia prima fornita dalla socializzazione, possono rifondare i ruoli della tradizione e creare nuovi ruoli.
Il maggior sviluppo registratosi partendo, almeno parzialmente, da questa prospettiva interazionista si deve all'opera di Goffman (1959). Secondo il sociologo canadese, la comunicazione degli individui viene giocata nella vita quotidiana come una rappresentazione teatrale, ovvero ognuno indossa le diverse maschere che i ruoli assunti richiedono. Il soggetto è quindi inteso come un attore creativo ed esperto, capace di controllare le proprie manifestazioni in base, per un verso, agli intenti che muovono il suo contatto con gli altri e, per l'altro, al bisogno di persuaderli. Per Goffman, quindi, i ruoli che giochiamo e la presentazione che forniamo al nostro pubblico costituiscono un'impresa essenziale della vita collettiva. E il processo di gestione delle impressioni dell'esistenza quotidiana è finalizzato a salvare la faccia. Questa, in sintesi, la visione drammaturgica goffmaniana, capace di estendere la sua analisi anche all'interno di luoghi deputati all'internamento, chiamati istituzioni totali (Goffman, 1961). Spazi separati dal mondo, dove all'internato si presentano poche possibilità di riscatto. Sia che si adatti supinamente al ruolo ascritto, sia che si ribelli a tale destino, aggravando così ulteriormente la sua posizione agli occhi dello staff, l'esito resta il medesimo: la caduta in una condizione di esclusione sociale che lo obbliga a una recita irreale. L'analisi di Goffman sulle istituzioni totali avrà una grande influenza sullo studio di psicologia che probabilmente meglio rappresenta il potere dei ruoli sociali: l'esperimento della prigione di Stanford (Haney, Banks e Zimbardo, 1973). Alcuni giovani volontari furono destinati a indossare, casualmente, i panni di guardie e detenuti. Il contesto artificiale di detenzione venne ricavato in un seminterrato dell'università di Stanford. Nonostante qualche sporadico atto di ribellione, i prigionieri adottarono quasi immediatamente un atteggiamento passivo per far fronte alla situazione. Parecchi volontari prigionieri dovettero persino essere scarcerati a causa del forte stress patito. Invece le guardie furono sempre gli iniziatori, autoritari, di qualsiasi rapporto tra le parti. Nel corso dell'esperimento, gli scambi comunicativi più frequenti divennero i comandi. Sebbene fosse chiaro a tutti i partecipanti che la violenza fisica non sarebbe stata ammessa, i comportamenti aggressivi si manifestarono comunque (soprattutto da parte delle guardie), semplicemente assumendo fattezze diverse. Gli oltraggi verbali e le umiliazioni psicologiche diventarono all'ordine del giorno e costituirono la modalità privilegiata di interazione tra secondini e reclusi. Il comportamento di questi ragazzi comuni, in meno di una settimana (l'esperimento venne interrotto bruscamente per la gravità delle situazioni createsi), assunse le tonalità della patologia psichica per i prigionieri e della condotta autoritaria per i secondini. La messinscena di un penitenziario si costituì profondamente come realtà. Il ruolo non cedette la sua presa su nessuno, imprigionando la soggettività di tutti i volontari, fossero controllori oppure controllati. Questa spoliazione dell'identità biografica e l'asservimento psicologico ai ruoli sociali imposti prende il nome di «deindividuazione».
Per comprendere, almeno in parte, il comportamento umano dal punto di vista della psicologia dei ruoli non è cruciale chi siamo, ma dove siamo. A occupare la scena è l'interazione, non le singole entità che la producono. Diventano salienti gli atti che scandiscono il contatto diretto tra attori, non la loro soggettiva psicologia individuale. In questa prospettiva, l'azione prende il sopravvento sull'essere. La tradizione di pensiero del Sé sostanziale viene sostituita dall'analisi del Sé contestuale. Non siamo in presenza di persone e dei loro momenti, piuttosto di momenti e delle loro persone. L'esperimento della prigione di Stanford rappresenta un esempio di come i ruoli, sebbene assegnati in maniera arbitraria, possano agire profondamente sull'identità personale dei singoli e indirizzare la condotta secondo il dettato della struttura sociale. Infatti, chi entra in un ruolo trova un Sé virtuale pronto ad attenderlo, basterà aderire ai vincoli e alle richieste del caso. Per questo «fare» è «essere». Imporre un'attività è imporre un mondo. Rifiutare un'imposizione è rifiutare un'identità (ossia, prendere distanza dal ruolo).
Alla luce di questo e di altri studi, i concetti di status e di ruolo mantengono una funzione centrale nella spiegazione normativa del funzionamento delle strutture sociali. Questa accezione normativa deve comunque essere incorporata dalla consapevolezza di una capacità creativa connessa al comportamento di ruolo. Possiamo quindi concludere affermando che il ruolo è la risposta tipica di individui che si trovano in una determinata posizione. E dalla tipicità bisogna distinguere l'effettiva e concreta esecuzione di ruolo. Poiché ogni situazione è un evento socialmente negoziato, tra i due elementi possiamo sicuramente attenderci qualche differenza. Ciò vuol dire che i ruoli non vengono meramente prescritti e in un secondo tempo giocati: i ruoli sono sempre sia costruiti che assunti.
ADRIANO ZAMPERINI